festival

Ex Oriente Lux

 

GIOVEDÌ 23 MAGGIO
DONNERSTAG, 23. MAI
TRENTO • TRIENT
Chiesa San Francesco Saverio, ore 20.30
Kirche San Francesco Saverio, 20,30 Uhr
Piccolo viaggio nella liturgia bizantina

Eine kleine Reise durch die byzantinische Liturgie

 

Ensemble Concilium
Trento

con la partecipazione di

Elisa Calabri, violoncello
Pietro Potrich, violino
Marcello Svaldi, fisarmonica

In collaborazione con | In Zusammenarbeit mit

Chieseacolori dell’Arcidiocesi di Trento

 

Programma
1. Telo Christovo
liturgia, canto processionale di comunione | tradizionale
2. Blagoslovi dusce moja Gospoda
vespro, inno dal salmo 103 | tradizionale
3. Svjatyi Bože
liturgia, canto del Trisagio | tradizionale
4. Inno dei Cherubini liturgia, canto d’offertorio | Aleksandr Grečaninov (1864-1956)
5. Telo Christovo
liturgia, canto di comunione | tradizionale dell’antica Kiev
6.                                              | Tebiê poiém
liturgia, canto d’anamnesi | Sergej Rachmaninov (1873-1943)
7.                                           | Peter Rukin (1873-1943)
8. Bogoróditse Djévo Raduisja
vespro, inno alla Madre di Dio | tradizionale
9.                                                     | Arvo Pärt (1935)
10. Fos ilaron
vespro, inno greco | tradizionale
11. Tzagumën Hrashali
rielaborazione armena, alla vigilia di Natale | Ludwig Bazil (1931-1990)
12. Aysor Anëskzbnakan
rielaborazione armena, per la Presentazione di Gesù al Tempio
13. Orhnemk’ ëz K’ez K’ristos
rielaborazione armena, per la memoria di san Teodosio
14. ‘Abùn
rielaborazione su testo aramaico | Massimo Marinai (1961)
15. Hvalite Gospoda
liturgia, alla Comunione | Dmitry Bortnjanskyj (1751-1825)
16. Soviet prevecnija
vespro, per l’Annunciazione | Pavel Chesnokov (1877-1944)
17. Khristos Anesti! Christos voskrese!
liturgia, annuncio della Pasqua di Risurrezione | tradizionale
18. Nynie otpuscaesci
vespro, cantico di Simeone | tradizionale

Progamma di sala

Ensemble Concilium, Trento
Sorto alla fine degli anni novanta, l’ensemble Concilium raccoglie l’eredità del coro Nikodim che per oltre un decennio – dal 1987 al 1999 – contribuì a diffondere il patrimonio liturgico della Chiesa bizantino slava grazie alla presenza a Trento di padre Nilo Cadonna. Fondato e diretto da Alessandro Martinelli, l’ensemble ha sostenuto il cammino ecumenico e culturale della Diocesi collaborando con molte istituzioni ed enti culturali, nell’intento di far conoscere la pluralità delle voci cristiane. Ha partecipato a rassegne in tutta la regione, con concerti nelle Chiese evangeliche di Verona, Merano e Bolzano, esibendosi a Vicenza, a Milano, e in due edizioni del Festival Biblico.

Erica Martinelli
Giancarlo Pepponi
Ilaria Filippi
Lorenza Fasoli
Lucio Pancheri
Marco Moser
Martina Salvetti
Michael Profaizer
Michele Scrinzi
Nicoletta Vettori
Tiziana Angheben
Valentina Dallafior
Claudia Dorigoni, letture
Alessandro Martinelli, direttore

Note di sala

Il coro fraterno Aleksandr Iščenko, 1996

Giovanni Crisostomo, eletto vescovo dell’antica Costantinopoli nel 398, è uno dei Padri della Chiesa che più di altri ha sostenuto la necessità di codificare la liturgia, facendola sapientemente confluire in un autentico patrimonio universale. Con due importanti attenzioni: l’utilizzo di testi evangelici e liturgici stabiliti dalla Chiesa, e un uso della musica non tanto come piacere estetico quanto come un servizio di elevazione dei testi stessi.
Dal punto di vista storico, se in Occidente il tempo farà prevalere lo stile legato a Roma, istituendo il patrimonio latino, l’Oriente rimarrà da sempre legato alle tradizioni liturgiche Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana. Quest’ultima, nel nostro caso, risulterà la liturgia più diffusa in tutto il mondo ortodosso, come pure nelle Chiese cattoliche orientali di rito bizantino. Motivo per cui, proprio oggi, nel contesto attuale nel quale anche le Chiese rischiano di diventare elementi di contrapposizione e persino di scontro, il rito di san Giovanni Crisostomo rappresenta una sorta di aspirazione ecumenica, di legame, di sogno, costituendo infatti, nei diversi accenti linguistici, un patrimonio comune e un originale angolo di bellezza a cui guardare, affascinati, non intimoriti, dalle diverse storie.
Tale stile, rimasto inalterato, è ancora descritto dalla forma singolare della cantillazione, o cantillenazione, a metà strada tra il canto vero e proprio e la lettura declamata, caratteristica tipica di tutto l’Oriente, che successivamente arriverà a contraddistinguere persino il legame con le singole voci, raffigurato dal dialogo liturgico tra il presbitero (tradizionalmente con voce tenorile), il diacono (voce baritonale) e il coro, che in questo contesto assume una veste quasi sacramentale. Senza nulla togliere al valore degli strumenti, sempre e comunque completamente assenti dalla liturgia, l’accento è posto sulla voce umana, ineguagliabile strumento creato da Dio.
Se il rito sorse in un contesto legato all’antica tradizione greca, la storia riuscirà ben presto a farlo espandere dilatandolo oltre i confini iniziali – così come accadde col battesimo dei popoli – segnando pertanto nuove identità.
«Siamo andati dai Greci che ci condussero là dove rendono il culto al loro Dio. E non sapevamo più se eravamo in cielo o sulla terra. Poiché sulla terra non vi è un tale spettacolo o una tale bellezza: noi siamo incapaci di esprimerlo. Non possiamo dimenticare questa bellezza, perché ogni uomo che ha gustato qualche cosa di dolce, in seguito non sopporta più l’amaro».
Queste leggendarie parole attribuite al principe Vladimir, che nel 988 provvide a introdurre la fede cristiana nell’antica Rus’, interpretano da sempre tutto il senso spirituale di quell’Oriente il cui fine – l’essenza stessa della spiritualità – è la trasfigurazione della vita quotidiana.
Il primo passaggio storico comporterà il cambio linguistico dal greco al più autoctono slavo – fautori i santi Cirillo e Metodio – facendogli assumere un ruolo talmente importante da esser comunemente identificato come slavo ecclesiastico, tutt’oggi alla base delle principali Chiese dell’Est Europa.
Il canto si presenta semplice, talora omofonico, per garantire la comprensione del testo e la partecipazione comunitaria, anche se per evidenti motivi è sempre stato necessario avere un gruppo guida; fatto, questo, che contribuì tra l’altro a consolidare nei popoli l’importanza e lo sviluppo della coralità.
I canti sostengono sempre i testi antichi prescritti dalla Chiesa, senza eccezioni. Altra tipicità è sempre stata, soprattutto in origine, la diffidenza, se non proprio l’inammissibilità, della polifonia classica – ad eccezione del momento della comunione dei celebranti ove sono accettate anche leggere variazioni – per la semplice ragione che l’indirizzo della musica è servire il testo senza favorire distrazioni che potrebbero sviare il raccoglimento.
Le prime tracce del canto arrivato nella Vecchia Rus’ dall’antica Costantinopoli, divenuto poi canto slavo, dettero vita, dopo l’XI secolo, ai primi canti neumatici – znàmenny j raspèv – scritti con neumi, a una voce, raccolti in manoscritti verso la fine dello stesso secolo. Solo successivamente si sviluppò un secondo tipo di notazione – kondakarny – assai melismatico, verosimilmente a commento di lunghe omelie chiamate appunto kontakia.
Per ascoltare inni a più voci dobbiamo attendere la fine del XV secolo e spostarci più a nord, verso Novgorod e Pskov, luoghi che nessun invasore riuscirà mai a occupare. I canti polifonici – anche se all’inizio la polifonia è intesa semplicemente come raddoppio della voce principale – piacquero subito, tant’è che lo stesso zar ne chiederà al Santo Sinodo una più ampia estensione.
Il XVI secolo fu segnato dai canti di strada – putrevo j raspèv – a carattere processionale, che contribuirono molto all’espandersi della creatività. Solo alla fine del secolo, dopo l’isolamento in cui si trovò la Rus’ tra Kiev e Mosca a causa dell’occupazione mongola, vennero introdotte nuove melodie – kievskij raspèv – canti di Kiev, sempre però su motivi greci – greceskij raspèv.
La proclamazione dell’autocefalia dalla sede di Costantinopoli – tra il 1448 e il 1589 – rafforzò non poco l’utilizzo della lingua slava come pure l’espansione liturgica e artistica, consolidando sempre più una forte identità locale.
Il XVII secolo fu segnato da un nuovo tipo di canto – demestivenny – derivato dalla figura del maestro di cappella, il demestik. È questo il periodo in cui dalle periferie cattoliche come la Lituania, e in parte dalla stessa Ucraina, iniziarono a diffondersi le quattro voci nella forma classica, provocando non poco la tradizione: il cosiddetto canto a spartiti dette vita ai kanty, canti a strofe su melodie orecchiabili, con testi spirituali ma non liturgici, ben presto però riadattati in modo da poterli introdurre nell’ordinamento rituale.
Il secolo XVIII è dominato dall’influenza italiana – Paisiello, Cimarosa, Galuppi, Sarti – che arricchì la musica sacra con nuove idee importate dall’occidente, influenzando non poco, per esempio per opera di Alexandr Lvov, la scuola di San Pietroburgo. Quella miscellanea occidentale portò però anche a composizioni non più tipiche della tradizione e in alcuni casi difficili da inserire anche all’interno della liturgia. Accadde questo con Bortnjanskij, allievo di Galuppi, e dopo di lui con Rimskij-Korsakov, Čajkovskij, e altri ancora, rafforzando peraltro l’idea della necessità di una riforma della musica sacra.
Diversamente dalla scuola di San Pietroburgo, fu a Mosca, soprattutto per opera di Michail Glinka, che il coro del Santo Sinodo operò per conservare tenacemente le fonti tradizionali, allontanandosi volutamente dalle influenze occidentali. Lo sottolineerà bene Alexandr Grecianinov, agli inizi del ‘900, assai acclamato per l’essenzialità delle sue composizioni.
Non mancarono mai forti discussioni, se non addirittura precise contesta-zioni, all’influenza che l’occidente suscitava nella musica sacra ortodossa, consolidata in parte proprio dalle diverse relazioni interculturali: San Pietroburgo e Novgorod con l’occidente, Mosca e la sede del Patriarcato decisa-mente fermi in una salda identità slavofona. Ogni possibile tentativo di ricomporre la frattura tra le due scuole, e ogni idea di ripensare a una riforma liturgica, non solo dal punto di vista musicale, verrà brutalmente interrotto con la rivoluzione d’ottobre del 1917.
Alcuni teologi provarono in tempi recenti e ripensarne la struttura, ma a differenza del pensiero occidentale, è sempre rimasta forte l’idea, nell’azione liturgica, che sia tutto il creato a costituirsi «tempio cosmico» in grado di condurre al mistero, e quindi paradossalmente intraducibile e inesprimibile in altre forme che non siano quelle dei primi secoli: la liturgia, in tutte le sue espressioni, è l’unica porta, la vera «porta regale», che permette di cogliere la Bellezza raccontata dai tratti puri di una Presenza unica e misterica. Non va nemmeno tralasciato il fatto che l’azione liturgica dell’Oriente, insieme ai fondamenti segnati da testo e canto, si inserisce in un contesto in cui diventa importante e necessario valorizzare tutti i sensi: l’icona, autentica finestra aperta sul mistero, garantisce alla vista la possibilità di cogliere almeno un raggio di quello che avverrà nell’eternità del tempo; l’incenso e la sua abbondanza, permette non tanto di estraniarsi quanto di avvolgere di sacralità le azioni della vita quotidiana; la luce, raffigurata dal ritmo incessante delle candele, prefigura il mistero dell’Oltre. È questa complementarità – di gesti e di attese, di azioni e di simbologie, di ritmi e di silenzi – impossibile da separare, a garantire ad ogni creatura, come scrisse Pavel Evdokimov, di diventare essa stessa un’esperienza «liturgica» e alla liturgia di trasformarsi in una «scuola di Vita».

a cura di Alessandro Martinelli